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CRONACHE DI ASURA febbraio 25, 2011

Posted by marisadibartolo in Uncategorized.
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            A grande richiesta: l’ inizio di un mio romanzo ancora inedito   

[se poi a qualcuno dovesse interessare leggere tutto il libro basta clikkare qui sopra il titolo “Cronache di Asura”.]

           

 

 

                                         CRONACHE  DI ASURA

 

 A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor, ch’ altra spesa mi strigne
tanto ch’ a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechiel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento con nube e con igne

                                 Prologo di Rachel alla presente versione.

Difficile spiegare in prima persona cosa significhi essere nati col marchio dell’ emarginazione, pur compiendosi  tale destino all’ interno di un mondo agonizzante, ridotto a polvere d’ ossa e di macerie. Eppure, anche in un consorzio umano in cui non sono più individuabili né  obiettivi né traguardi, e in cui nessuna gerarchia sociale distribuisce meriti o demeriti, accade di venir mantenuti inginocchiati in ruoli servili, su un gradino di inferiorità che ha come unica giustificazione un colore della pelle più scuro, e una complessione fisica più tozza e   resistente.                                                     Io sono nata così, e altri,  con  analoghe caratteristiche, sono stati insieme a me separati dai propri simili alla nascita,  messi in disparte, come soggetti portatori di anomalie o tare in una cucciolata di perfetti cani di razza. Per strano che possa sembrare, all’ epoca questo modo di procedere mi pareva perfettamente logico: e anche ora ritengo inevitabile selezionare i destinati  a mansioni subalterne; e cioè , per i maschi, il costruire  mattoni, il fungere da capimastri e carpentieri per l’ edificazione di opere in muratura, e ogni altra incombenza da uomo di fatica o cameriere; per  le femmine il venir addestrate alla cura dei bambini, di cui le madri tendono a disinteressarsi, attratte come sono dal loro passatempo  preferito, il  chiacchierare e lo spettegolare con altre donne, giovani  o  signore mature .                                Tale quindi il percorso di vita assegnatomi, percorso che condivisi con tutte le  ragazze d’ incarnato color cuoio  e corporatura poderosa. Ma mentre le altre babysitter sembrarono subito soddisfatte dell’ accompagnare i bambini nei loro giochi, consistenti di solito nello scavare buche nella sabbia e nel trastullarsi con gli animali, io, senza che nulla lo lasciasse trapelare vivevo nell’ insoddisfazione e nell’ angoscia. Sentivo in me un vuoto che non veniva colmato dal passeggiare fuori dalle mura della città con Giordano, il piccolo di cui ero responsabile; avevo la sensazione precisa di essere stata defraudata di qualcosa che mi spettava e che mi veniva tenuto nascosto. Se tentavo di comunicare il mio senso di infelicità alle amiche tate, nei lunghi pomeriggi in cui facevamo capannello con la nostra corte di pargoli intenti a scorazzare nel deserto, nel regime di libertà di cui godevano sotto i cinque anni, mi sentivo rispondere che avevo fantasie di quel tipo perché ero giovane, ma  che in seguito, quando mi fossi sposata con qualche muratore o cameriere, quei “grilli” mi sarebbero passati. Avrei avuto un bambino scuro come me e l’ avrei portato a giocare fuori città, forse con i figlioletti della famiglia per la quale lavoravo : allora mi sarei sentita completamente appagata. E mi si diceva che non avrei potuto desiderare di meglio.                 In effetti io stessa, non conoscendo l’ origine della mia sofferenza, finivo per dubitare della mia  mente,  sentendo crescere in me onde di ribellione che rischiavano di travolgermi.  Così, poiché assistere i bambini era il mio compito, ed ero ansiosa di venir accettata come persona “normale”, scavavo anch’ io insieme a loro. Rimanevo nel deserto a scavare anche quando, dopo aver riaccompagnato Giordano, potevo tornare da sola sullo scenario dei giochi. Infatti agli abitanti adulti di Asura era proibito oltrepassare la cinta muraria, nel convincimento che pericolosissime insidie (virus o radiazioni) non avrebbero mancato di  attaccare i disobbedienti. Solo alle tate, notoriamente resistenti per via dello spessore della pelle, era concesso tale privilegio. Allora, quando finalmente il mio sguardo era libero di spaziare tutt’ intorno senza incontrare altro che l’ orizzonte, non mi sentivo la donna scura e tozza  degna solo di compiti servili:  ma la padrona del deserto. Mi sedevo davanti al tramonto e ne contemplavo il mutevole spettacolo; osservavo i movimenti dei due grandi animali custodi del deserto, le cui gigantesche stature dominavano il confine tra cielo e Terra, interrogandomi sul significato della loro enigmatica, e nello stesso tempo familiare presenza. A volte, scegliendo la sabbia più umida e profonda modellavo statue ispirate alle immense creature:  sapevo che il cercare di rappresentare quei giganti  era un mio tentativo di carpirne il segreto, quasi che, scavando e rimescolando la sabbia, le mie mani potessero afferrare la chiave d’ un mistero. E sepolto nel manto sabbioso che ricopriva l’ intero volto del pianeta , scoprii, nel corso d’ un lungo tramonto, ciò che avrebbe dato una svolta alla mia vita. Già in passato avevo avuto la fortuna di trovare il frammento di un oggetto sconosciuto, che in un primo momento non mi fu facile interpretare.                                                                                                  In seguito compresi d’ essermi imbattuta in un pezzo di specchio. Sapevo cosa fosse uno specchio per averne intravisto uno  avvolto in un tappeto nello sgabuzzino della casa in cui lavoravo. Ma allora non avevo potuto osservarlo con attenzione , né  cogliere la magia  dell’ immagine riflessa.  Solo nello stupefacente reperto a forma di poligono irregolare tutto mio vidi per la prima volta la mia capigliatura irsuta, la mia pelle scura, le  sopracciglia ispide sopra il  naso camuso, quasi diviso in due nella parte carnosa da un solco mediano. Mi resi pure conto, reggendo il frammento di specchio,  di avere le mani tozze e nodose, percorse da vene bluastre. Fu allora che la mia sofferenza si accentuò. Interiormente sentivo d’ essere un’ eterea creatura dai lineamenti delicati, di pelle ambrata,  di corporatura sottile. Ma lo specchio mi strappava drammaticamente all’ illusione. Fatalmente, dopo essermi osservata nella magica vitrea superficie  mi chiusi ancora di più in me stessa. Anche se le altre tate erano scure quanto me, non volli più  comunicare con loro: da quel momento le trovai detestabili quanto la mia immagine riflessa. Io sentivo di appartenere a un’ altra dimensione, a un mondo di luce e bellezza.  Infine, giunse il tempo in cui il destino- il mio vero destino- mi si parò davanti, immediatamente riconoscibile. Era una di quelle sere dolcissime che  in me acuivano la nostalgia di un altrove sconosciuto, e tuttavia ospite stabile della mia anima. Come altre volte, mi ero seduta per contemplare il cielo striato di rosa e arancio; ma in quell’ ora particolare  mi afferrò  un’ inspiegabile emozione,  come se la prima notte della creazione stesse per fare il suo debutto, col suo sciame di stelle ancora  incerte nell’ affacciarsi, intimidite dalla loro stessa bellezza. Mi sentivo nella condizione sospesa che anticipa i grandi accadimenti, nel presagio che alla mia solitudine stessero per venir date risposte. Rialzandomi, le mie mani affondarono, e urtarono qualcosa: dall’ umida profondità della sabbia estrassi un oggetto schiacciato, poco più grande di un  mattone, sigillato in busta di cellofan; lo ripulii con un lembo dell’ abito, e lo portai a casa ben nascosto sotto le vesti, come avessi  compiuto un furto.                                       La mia abitazione era veramente minimale, spartano edificio di sabbia  pressata mista a polvere di vetro. Il pavimento era in terra battuta e, a parte un angolo per cucinare, non v’erano spazi utili a nascondere alcunché. Ma io non ero che un’ insignificante tata, nessuno avrebbe mai fatto caso a me, o a  quel che tenevo sotto il letto o sul tavolo: così tagliai l’ involucro di plastica che avvolgeva il mio ancora ignoto tesoro.                                                                Era un libro. Ne avevo sentito parlare,  anche se non avevo avuto modo di capire a che potessero mai servire. Si sapeva che alcuni libri venivano conservati con cura da personaggi d’ alto rango cui era stato affidato il delicato incarico. Il cuore mi batteva per l’emozione, perché sapevo che  avrei dovuto consegnarlo a uno degli eminenti della città; ma per una volta apprezzai il fatto di trovarmi a un livello tanto infimo nella scala sociale da potermi ritenere esentata da qualsiasi obbligo. Non avevo occhi che per il mio libro: tanto che dimenticai di cenare. Accesi una candela nuova e a quella luce voltai religiosamente le antiche pagine una alla volta. Erano pagine piene di figure a colori: le figure rappresentavano animali, piante, fiori, laghi e montagne, tutto ciò che non avrei mai potuto vedere perché da molti millenni scomparso, polverizzato dalle vicissitudini in cui il pianeta era incorso in preda alla distruttiva furia suicida di cui era giunta memoria. Avrei voluto saper decifrare le parole scritte sotto le immagini, ma all’ epoca non sapevo leggere e ritenevo già miracoloso aver avuto la fortuna di imbattermi nel libro. In effetti  il rinvenimento nella sabbia di reliquie dei millenni andati non era un fatto eccezionale: pezzi di oggetti di vetro o di ceramica o altro materiale in grado di resistere al tempo nonché alla furia devastatrice del fuoco delle esplosioni di ordigni termonucleari  erano relativamente frequenti. Soprattutto i frammenti di vetro erano talmente numerosi da venir riutilizzati, mescolati alla sabbia,  come materiale edilizio. Ma i libri erano cimeli preziosi: anche perché avrebbero dovuto per  loro cartacea natura scomparire, e invece per inesplicabili ragioni qualche preveggente aveva ritenuto di sigillarli entro buste di plastica straordinariamente resistente: si sarebbe potuto pensare con l’ intenzione di garantire  alla conoscenza una sopravvivenza  nel futuro.                                         L’ indomani pur non essendo cambiato nulla nella mia vita mi sentii stranamente euforica. Accompagnai come al solito Giordano a giocare nel deserto: vacillava sulle piccole gambe dei suoi pochissimi anni  ma questa volta non volle esser tenuto per mano: si diresse verso i giganteschi custodi del deserto, che torreggiando sembravano  attrarlo dal confine del mondo. Io lo seguii con la certezza, in quella marcia verso l’ ignoto sull’ orma minuscola dei suoi piedini, di uscire da una fase oscura della mia vita per entrare in un nuovo stato di coscienza, come un serpente abbandona la pelle disseccata per rimettersi  a nuovo, lustro e splendente come un fiore appena uscito dal cuore della creazione. Ed è questo l’ inizio della nostra storia.